La Cassazione cambia rotta: la sottrazione al pagamento delle imposte è reato solo se è accertata un'effettiva condotta fraudolenta

La Cassazione cambia rotta: la sottrazione al pagamento delle imposte è reato solo se è accertata un'effettiva condotta fraudolenta
27 Marzo 2018: La Cassazione cambia rotta: la sottrazione al pagamento delle imposte è reato solo se è accertata un'effettiva condotta fraudolenta 27 Marzo 2018

In pronunce più o meno recenti la Corte di Cassazione aveva affermato che l'illecito sanzionato dall'art. 11 d.lgs. 74/2000 (sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte) "costituisce fattispecie tipicamente di pericolo, non di danno, in cui vengono posti in essere atti idonei a pregiudicare l'adempimento dell'obbligazione tributaria, indipendentemente dalla sussistenza di un'effettiva condotta fraudolenta (cfr., ex multis, Cass. pen., sez. III, 29.01.2016, n. 3881).

Tuttavia, con la recente sentenza n. 10161/18, depositata il 6 marzo scorso, gli Ermellini hanno rivisto la loro precedente (e forse eccessivamente rigorosa) posizione, richiedendo ora, ai fini dell'integrazione dell'illecito penale de quo, un quid pluris, caratterizzato dalla modalità ingannevole attraverso la quale la condotta sottrattiva viene posta in essere dall'agente.

Nel caso in esame la legale rappresentante di una società gravata da un cospicuo debito IVA (di euro 135.341,01), anziché porre in liquidazione la società, ne aveva alienato i beni (ad un'altra società di cui la stessa era amministratrice), per un importo ben inferiore al debito tributario, ma comunque congruo rispetto ai valori di mercato.

Il ricavato era poi stato destinato al pagamento di altri debiti della società (stipendi, assicurazioni, cassa edile), diversi rispetto a quelli nei confronti dell'Erario.

Il Tribunale di primo grado aveva assolto l'imputata, mentre la Corte di Appello aveva ritenuto sussistente la sua penale responsabilità, per aver vanificato, attraverso la condotta di alienazione dei beni, la pretesa creditoria del Fisco.

L'imputata aveva quindi proposto ricorso per cassazione, lamentando la violazione di legge rispetto all'art. 11 d.lgs. 74/2000, atteso che ai fini della configurabilità del delitto de quo, si rende necessario un quid pluris, che deve essere appunto caratterizzato "dall'ingannevolezza della condotta dissimulata dalla seguita alienazione".

Nel suo caso, per contro, la natura fittizia dell'operazione era esclusa proprio dalla congruenza ai valori di mercato del prezzo di realizzo dei cespiti societari.

Né, diversamente, la Corte aveva evidenziato ulteriori elementi a dimostrazione della frode ai danni dell'Erario, ovvero addotto argomenti che comprovassero che la finalità perseguita attraverso la suddetta operazione fosse quella di sottrarre garanzie patrimoniali al Fisco.

I Giudici di Piazza Cavour hanno accolto le censure avanzate dall'imputata, cassando la sentenza impugnata.

La decisione di legittimità ha infatti osservato come la finalità della norma sia proprio quella di "evitare che il contribuente si sottragga al proprio dovere di concorrere alle spese pubbliche sottraendo il proprio patrimonio, costituente la garanzia generica dell'obbligato, alle ragioni dell'Erario rendendo in tutto o in parte inefficace la procedura di riscossione coattiva".

Tuttavia, proprio la struttura della fattispecie con formulazione alternativa, sotto il profilo della condotta, implica che il carattere fraudolento previsto per la seconda ipotesi investa "tutti gli altri atti volti a disperdere la garanzia patrimoniale del creditore e, dunque, tutti gli atti lato sensu dispositivi dei beni ivi ricompresi".

Per incorrere nella responsabilità penale prevista dalla disposizione in esame, pertanto, occorre che "l'atto dispositivo sia connotato dalla peculiare finalità indicata dalla stessa norma come fraudolenta: il concetto di frode evocato dalla norma presuppone, invero, non soltanto la lesione di un diritto altrui, che connota l'atto pregiudizievole in sé, ma altresì la specifica modalità attraverso la quale viene tale lesione effettuata, ovverosia l'inganno atto a configurare una situazione di apparenza diversa da quella della realtà sottostante, costituita dalla riduzione del patrimonio del debitore, così da mettere a repentaglio l'azione di recupero per l'Erario, o comunque da renderla più difficoltosa (...) E se è ben vero che l'atto dispositivo di un bene tanto mobile quanto immobile rende di per sé maggiormente difficoltosa ed incerta l'esazione del credito, essendo il danaro bene fungibile per eccellenza e quindi più facilmente occultabile, tanto da legittimare l'esperibilità dell'actio revocatoria in sede civile, non può tuttavia perciò ritenersi integrata la finalità fraudolenta sul piano penale, dovendo l'atto dispositivo essere caratterizzato da un quid pluris, ovverosia dalla modalità ingannevole attraverso la quale viene realizzato".

Pertanto, non basta che la condotta sia pregiudizievole, sotto il profilo del pericolo o anche del danno (come nel caso di specie) per l'Erario, ma occorre che il pregiudizio arrecato non sia immediatamente percepibile proprio in conseguenza della condotta fraudolenta posta in essere dal debitore.

Così, la mera alienazione di beni immobili o mobili per un valore congruo rispetto a quello di mercato, pur rendendo più difficoltoso il soddisfacimento della pretesa erariale, non integra, di per sé sola, il delitto in contestazione, nulla essendovi in tale atto che possa essere connotato come “fraudolento” (né, diversamente, si sarebbe potuto ritenere, secondo i Giudici di Piazza Cavour, per il fatto che l’imputata aveva venduto i predetti beni ad altra società della quale era amministratrice)

Per tali ragioni, la Corte di Cassazione ha accolto il ricorso dell'imputata, annullando con rinvio la sentenza impugnata.

 

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